Mons. Fisichella: questo è il tempo della misericordia

2016-08-27-pcpne

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Fisichella Giubileo Bogotà

Conferenza del presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizazzione in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia nel Continente Americano

Bogota 27 agosto 2016

Perché il Giubileo 

Dopo che Papa Francesco, il 13 marzo 2015, aveva dato in maniera del tutto inaspettata e sorprendente l’annuncio del Giubileo della Misericordia, da molte parti è sorto l’interrogativo: “Perché un Giubileo?”. La domanda aveva un suo senso. Il Giubileo, d’altronde, si celebra ogni 25 anni e l’ultimo voluto da san Giovanni Paolo II nel 2000 aveva creato un grande entusiasmo nella Chiesa perché la immetteva nel terzo millennio della sua storia. La Lettera apostolica Novo millennio ineunte che il Papa aveva consegnato a tutta la Chiesa alla fine dell’Anno Santo, era ancora tra le mani di molti vescovi che avevano fatto di quell’insegnamento un vero “programma” pastorale. Perché quindi un nuovo e inaspettato Giubileo che per alcuni veniva a intromettersi in un calendario pastorale già programmato sconvolgendo i piani dei vescovi e delle diocesi?

Il Papa stesso ha risposto a questa domanda il giorno dell’Indizione ufficiale del Giubileo durante la celebrazione dei Primi Vespri nella Domenica della Misericordia. In quella circostanza, infatti, nella sua breve riflessione disse: “Una domanda è presente nel cuore di tanti: perché oggi un Giubileo della Misericordia? Semplicemente perché la Chiesa, in questo momento di grandi cambiamenti epocali, è chiamata ad offrire più fortemente i segni della presenza e della vicinanza di Dio. Questo non è il tempo per la distrazione, ma al contrario per rimanere vigili e risvegliare in noi la capacità di guardare all’essenziale. E’ il tempo per la Chiesa di ritrovare il senso della missione che il Signore le ha affidato il giorno di Pasqua: essere segno e strumento della misericordia del Padre (cfr Gv 20,21-23). E’ per questo che l’Anno Santo dovrà mantenere vivo il desiderio di saper cogliere i tanti segni della tenerezza che Dio offre al mondo intero e soprattutto a quanti sono nella sofferenza, sono soli e abbandonati, e anche senza speranza di essere perdonati e di sentirsi amati dal Padre. Un Anno Santo per sentire forte in noi la gioia di essere stati ritrovati da Gesù, che come Buon Pastore è venuto a cercarci perché ci eravamo smarriti. Un Giubileo per percepire il calore del suo amore quando ci carica sulle sue spalle per riportarci alla casa del Padre. Un Anno in cui essere toccati dal Signore Gesù e trasformati dalla sua misericordia, per diventare noi pure testimoni di misericordia. Ecco perché il Giubileo: perché questo è il tempo della misericordia. E’ il tempo favorevole per curare le ferite, per non stancarci di incontrare quanti sono in attesa di vedere e toccare con mano i segni della vicinanza di Dio, per offrire a tutti, a tutti, la via del perdono e della riconciliazione” [1].

“Ecco perché il Giubileo: perché questo è il tempo della misericordia”. L’espressione nella sua semplicità sintetizza il pensiero del Papa. E’ necessario pertanto entrare nel merito di questo orizzonte per cercare di vedere in quale modo la misericordia diventa la cifra su cui leggere, interpretare e vivere questo Anno Santo. Sappiamo che la misericordia non si lascia rinchiudere nell’unico termine che la designa. Anzi, nel momento stesso in cui volessimo definire la misericordia –darle cioè una descrizione che ne esaurisce il contenuto- l’avremmo definitivamente distrutta. La misericordia ha bisogno di rimanere aperta perché è una realtà dinamica. Essa appartiene all’essenza stessa di Dio e come tale la mente umana la può solo cogliere e descrivere nei suoi aspetti, ma non circoscriverla in una formula matematica. La misericordia sfuggirà sempre a qualsiasi formula stereotipa, perché indica l’agire stesso di Dio che non potrà mai essere esaurito. La sua ricchezza è infinita e permane come sorgente inesauribile dell’amore di Dio. Per alcuni versi, potrebbe essere utile applicare alla misericordia quanto un grande santo poeta e dottore della Chiesa, il diacono s. Efrem il Siro scrive a proposito della Parola di Dio: “Siamo proprio come gli assetati che devono a una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi un a ricchezza in ciò che contempla. La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale… Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre ciò che ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una sola cosa fra molte altre. Dopo essersi arricchito nella parola non creda che questa venga da ciò impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per l'immensità di essa. Rallegrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. E' meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, ricedilo in altri momenti con la tua perseveranza. Non avere l'impudenza di voler prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a più riprese, e non allontanarti da ciò che potresti ricevere solo un po' alla volta” [2].

La liturgia spazio reale della misericordia

La misericordia si presenta ai noi con molti volti che ne raffigurano la sua bellezza, la sua bontà e la realtà che esprime. Tra i tanti, ho scelto in particolare due volti della misericordia che possiamo cogliere come espressione qualificante della sua multiforme realtà. Il primo volto, lo si contempla nella liturgia. E’ qui che si coglie la verità profonda della misericordia come essenza della Trinità. Se solo avessimo il tempo di verificare quante volte il termine risuona nella liturgia, vedremmo che esso è onnicomprensivo. Nella maggioranza delle collette, la misericordia risulta come l’invocazione più frequente che viene rivolta dai fedeli al Padre perché la conceda in abbondanza come espressione di vita nuova. Una tra le più conosciute è certamente quella che Papa Francesco ha voluto ricordare nella Bolla Misericordiae vultus: “O Dio che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono...” [3]. Altri testi, comunque, riflettono la stessa intensità; si pensi, solo a livello esemplificativo, alla Colletta nella Domenica di Quaresima destinata fin dall’antichità allo scrutinio dei catecumeni: “Dio misericordioso fonte di ogni bene, tu ci hai proposto a rimedio del peccato il digiuno la preghiera e le opere di carità fraterna; guarda a noi che riconosciamo la nostra miseria e poiché ci opprime il peso delle nostre colpe, ci sollevi la tua misericordia” [4]. Come si nota: miseria umana e bontà divina si incontrano per dare voce alla misericordia come espressione di liberazione totale.

Nella liturgia eucaristica, inoltre, dall’inizio alla fine, la misericordia costituisce il riferimento costante per accedere purificati e vivere degnamente la celebrazione dei sacri misteri. “Dio abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna”, sono le parole iniziali del sacerdote all’inizio dell’atto penitenziale. Alla stessa stregua prega per se stesso il sacerdote nella preghiera eucaristica del Canone Romano: “Anche a noi tuoi ministri peccatori, ma fiduciosi nella tua infinita misericordia”; e ancora: “Di noi tutti abbi misericordia, donaci di aver parte alla vita eterna”, sono la conclusione del della Seconda Preghiera Eucaristica. “Nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro perché coloro che ti cercano ti possano trovare”, sono l’inizio della Quarta Preghiera eucaristica. Prima del richiamo al segno della pace, la misericordia ritorna di nuovo: “Con l’aiuto della tua misericordia vivremo sempre liberi dal peccato”. Insomma, la misericordia lontano dall’essere un semplice richiamo parenetico è l’asse portante della preghiera liturgica.

Nella liturgia, si comprende il valore performativo che la preghiera assume per ottenere misericordia. Forse, l’espressione che più di ogni altra merita essere ricordata in questo contesto è l’invocazione del Salmista più volte ripresa nella liturgia: “Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza” (Sl 85,8). In ogni celebrazione liturgica, questa parola diventa davvero reale. Nei sacri misteri che la Chiesa celebra, la Trinità si rivela come il mistero dell’insondabile amore eternamente vissuto, che si china con bontà verso i credenti, inondandoli del dono della grazia imperscrutabile che i sacramenti esprimono. Un breve richiamo a questo Salmo permette di comprendere il grande valore che la preghiera liturgica gli affida. Non è un caso, infatti, che ritroviamo questo Salmo nel periodo dell’Avvento, dove l’intento è quello di indicare il dono più grande del Padre all’umanità: l’incarnazione del Figlio. In questo Salmo, ritornano gli elementi fondamentali che compongono la misericordia: perdono (v 3), conversione (v 5), salvezza (v 8), pace (v 9), gloria (v 10), amore (v 11), verità (v 11), giustizia (v 11), bene (v 13), sono richiamati dal Salmista per esprimere la gioia del dono della misericordia divina che manifesta i tratti del volto di Cristo. Il tema del “ritorno” (shub) che più volte è presente nel Salmo, non è solo in riferimento alla deportazione del popolo in esilio, ma indica più spiritualmente la conversione e il ritorno alla casa del Padre, che attende impaziente il ritorno di quanti si sono allontanati (cfr Lc 15, 11-32). E, tuttavia, non solo l’uomo ritorna a Dio; anche a Dio si chiede di ritornare verso il suo popolo. Solo in questo modo la misericordia acquista tutta la sua valenza perché incarna il vero volto di Dio che non si lascia andare all’ira, “ma placa il suo sdegno” (v.5); se la prima dura un istante, la seconda permane in eterno. Insomma, tutto in questo Salmo parla della tenerezza e dell’amore di Dio che parla al cuore dell’uomo perché riconosca la sua misericordia.

Con ragione, pertanto, Giovanni Paolo II poteva scrivere: “La Chiesa professa la misericordia di Dio, la Chiesa ne vive nella sua ampia esperienza di fede ed anche nel suo insegnamento, contemplando costantemente Cristo, concentrandosi in lui, sulla sua vita e sul suo Vangelo, sulla sua croce e risurrezione, sull'intero suo mistero… La Chiesa vive una vita autentica, quando professa e proclama la misericordia - il più stupendo attributo del Creatore e del Redentore - e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice. Gran significato ha in questo ambito la costante meditazione della parola di Dio e, soprattutto, la partecipazione cosciente e matura all'Eucaristia e al sacramento della penitenza o riconciliazione. L'Eucaristia ci avvicina sempre a quell'amore che è più potente della morte... Lo stesso rito eucaristico, celebrato in memoria di colui che nella sua missione messianica ci ha rivelato il Padre, per mezzo della parola e della croce, attesta quell'inesauribile amore in virtù del quale egli desidera sempre unirsi ed immedesimarsi con noi, andando incontro a tutti i cuori umani. È il sacramento della penitenza o riconciliazione che appiana la strada ad ognuno, perfino quando è gravato di grandi colpe. In questo sacramento ogni uomo può sperimentare in modo singolare la misericordia, cioè quell'amore che è più potente del peccato” [5]. Nell’azione liturgica, pertanto, il credente si pone nella contemplazione della misericordia di Dio. Nel silenzio dell’ascolto, percepisce la potenza del mistero che gli si fa incontro e viene abilitato per grazia a diventarne segno concreto con la sua testimonianza nel mondo. Lontano dall’essere un momento che distoglie dal vivere la misericordia, la liturgia ne permette la sua giusta attuazione. Porsi in ginocchio dinanzi alla grandezza dell’amore misericordioso della Trinità è il segno tangibile della trasformazione che avviene nel cuore di ogni persona che ha ascoltato l’annuncio del vangelo della misericordia e vi ha aderito con fede.

Alla luce di questo contesto in cui la contemplazione del mistero si fa più diretta, diventano particolarmente suggestive le parole di Papa Francesco a conclusione di Misericordiae vultus: “Dal cuore della Trinità, dall’intimo più profondo del mistero di Dio, sgorga e scorre senza sosta il grande fiume della misericordia. Questa fonte non potrà mai esaurirsi, per quanti siano quelli che vi si accostano. Ogni volta che ognuno ne avrà bisogno, potrà accedere ad essa, perché la misericordia di Dio è senza fine. Tanto è imperscrutabile la profondità del mistero che racchiude, tanto è inesauribile la ricchezza che da essa proviene” [6]. Il tempo liturgico, dunque, è a pieno titolo il tempo della misericordia.

La misericordia come testimonianza

Un secondo volto della misericordia si esprime nella vita dei credenti. Tanti sono i volti della misericordia che si dovrebbero ammirare, quanti sono i volti dei discepoli di Cristo. Certo, il limite del peccato è sempre all’erta. Per ognuno di noi la tentazione di rinchiudersi in se stesso, nell’indifferenza, e nella stanchezza sono sempre all’erta; eppure, sappiamo che la misericordia agisce come il “cuore inquieto” di cui parlava sant’Agostino; essa non lascia tranquillo nessuno fino a quando non si è diventati strumento di misericordia. Le parole di Papa Francesco sono una provocazione permanente per la nostra vita di fede: “Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti, insomma, dovunque vi sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia” [7]. Dovrebbe essere proprio così. La presenza attiva del credente richiede di essere permeata dalla misericordia con la quale professa la fede, che lo rende discepolo di Cristo; rende evidente l’amore, che lo spinge ad agire; e proclama la speranza, che gli permette di essere sempre in cammino verso il compimento della promessa. Le parole di Papa Francesco sono da interpretare come il tracciato di un percorso che indica dove la Chiesa deve sentirsi profondamente impegnata. Lo ricorda spesso con molta convinzione: “Le opere di misericordia non sono temi teorici, ma sono testimonianze concrete. Obbligano a rimboccarsi le maniche per alleviare la sofferenza” [8]. La misericordia pertanto non è una parola astratta, ma un atto, un’azione, un segno concreto che viene vissuto

In questo contesto, un passaggio in una delle meditazioni rivolte ai sacerdoti per il loro Giubileo mi ha particolarmente colpito. Papa Francesco ha detto: “Le opere di misericordia sono infinite, ciascuna con la sua impronta personale, con la storia di ogni volto. Non sono soltanto le sette corporali e le sette spirituali in generale. O piuttosto, queste, così numerate, sono come le materie prime – quelle della vita stessa – che, quando le mani della misericordia le toccano o le modellano, si trasformano, ciascuna di esse, in un’opera artigianale. Un’opera che si moltiplica come il pane nelle ceste, che cresce a dismisura come il seme di senape. Perché la misericordia è feconda e inclusiva” [9]. Una vera sfida quella di dare voce e forma alla fecondità della misericordia. Essa si esprime nel tentativo non solo di reinterpretare le sette opere di misericordia corporale e spirituale che conosciamo, ma nella capacità di scoprirne e inventarne delle nuove. Per la Chiesa questa strada è un obbligo perché le permette di comprendere se stessa realmente inserita nella storia che vive e nella quale è chiamata ad essere “segno e strumento” della misericordia del Padre. E’ ovvio che dinanzi alla parabola che ricorda le opere di misericordia corporale, che Gesù stesso ci ha lasciato quasi fosse un suo testamento [10], ogni cristiano è chiamato a viverle alla lettera, sine glossa. Dare da mangiare a chi ha fame e bere a chi ha sete; ospitare chi è senza casa e assistere chi è nella sofferenza della malattia o della mancanza di libertà. Eppure, mi domando: come si può interpretare oggi l’opera di misericordia “vestire i nudi”? La Sacra Scrittura non ci lascia molto spazio per aggiornare la nostra interpretazione. E’ necessario comprendere bene il testo che conosciamo per affidargli il suo senso completo. Subito all’inizio della Genesi troviamo il lamento di Adamo: “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto” (Gn 3,10). A questo momento di turbamento a seguito del peccato che rovina la relazione con Dio e quelle interpersonali, viene subito in aiuto la misericordia del Padre; commenta il libro della Genesi: “Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie  tuniche di pelli e li vestì” (Gn 3,21). Forse, è proprio qui il primo richiamo all’azione misericordiosa di Dio che toglie Adamo ed Eva dall’imbarazzo della loro nudità. Non sono loro che si vestono, è Dio che provvede loro il vestito. Il nascondimento provocato dalla nudità che aveva creato isolamento, paura e vergogna, viene superato dall’abito che restituisce una presenza sociale. E’ la stessa cosa che succede con Noè una volta che si è ubriacato, rimane nudo (cfr Gn 9,21). Saranno i suoi figli Sem e Jafet camminando a ritroso a coprire la nudità del padre perché non sia svergognato dinanzi a nessuno (cfr Gn 9,23). Il senso che si può cogliere è nitido: vestire i nudi significa restituire loro dignità. “Ero nudo e mi avete vestito”, pertanto, provoca a individuare le nuove forme di povertà ed emarginazione sociale che impediscono alle persone di avere dignità. Certamente, non avere un lavoro, non avere una casa, non avere un salario rispettoso del lavoro, essere discriminati per la propria fede… sono tutti elementi che impediscono di avere dignità. Come la Chiesa e il cristiano possono contribuire a restituire dignità a quanti sono nudi è un imperativo che non può coglierci di sorpresa, ma che impone vigilanza dinanzi alle nuove forme di povertà.

Alla stessa stregua, dovremmo entrare nel merito delle opere di misericordia spirituale. Come può essere vissuta oggi l’opera che dice: “ammonire i peccatori”. In un contesto culturale come il nostro in cui l’individualismo ha fatto perdere di vista la responsabilità per l’altro, come possiamo essere in grado di far comprendere la mancanza di responsabilità sociale che investe ormai tanti ambiti della vita pubblica? Come poter far comprendere a una persona che sbaglia, che seguendo quella strada non compie il bene e tanto meno realizza la sua identità personale? Il relativismo che ci accompagna per cui è bene ciò che ognuno ritiene tale, come può essere superato in vista di un bene comune che trova nella legge scritta nel profondo del cuore di ognuno e nella comune natura, il suo fondamento oggettivo? Insomma, da ogni parte consideriamo le opere di misericordia siamo comunque spinti a una loro più fattiva interpretazione per renderle attuali e concrete nelle mutate condizioni sociali e culturali in cui ci troviamo.

Potremmo essere tentati di andare subito al concreto e anche qui costruire opere; eppure, l’indicazione che proviene è anzitutto quella di essere consapevoli e coscienti dell’esigenza di non abituarci mai alla misericordia. Come la misericordia non si lascia definire, così essa non si lascia circoscrivere in un ospedale, in una scuola, in una mensa o in un ostello. No, la misericordia è piuttosto un cuore inquieto che cerca continuamente il volto di Cristo in quello del fratello e non si arrende fino a quando, per dirla con le parole di Gesù nella parabola del buon samaritano: “ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui” (Lc 10,33-34).

Prendersi cura del fratello: è questo il primo impatto con la misericordia. Per alcuni aspetti, potremmo individuarne alcuni tratti nella vita quotidiana dei primi cristiani. E’ conosciuto il racconto di Pietro e Giovanni che dopo la Pentecoste si recarono al tempio per la preghiera (At 3,1-7). Il racconto è ricco di particolari che meritano di essere ricordati: uno storpio fin dalla nascita chiedeva l’elemosina alla porta “Bella” del tempio. Vedendo arrivare Pietro e Giovanni “li pregava per avere un’elemosina”. Non dimentichiamo che dietro il gesto abitudinario, si nasconde però la parola chiave: ἐλεημοσύνη. In greco, misericordia, si dice “elemosina”! Siamo chiamati quindi a vedere dietro l’atto del chiedere una moneta, la richiesta di ottenere misericordia. Ed ecco come la misericordia si esprime in Pietro: “Fissando lo sguardo su di lui… disse: guarda verso di noi”. Quello storpio sperava di ottenere una somma; Pietro, invece, gli offre misericordia. Il suo non fu un ingresso frettoloso nel tempio, e neppure manifestò insofferenza per un altro questuante davanti alla porta che gli chiedeva i soldi. Pietro guarda il mendicante, si accorge di lui e gli rivolge la parola. Non ha né oro né argento, ma quanto possiede, cioè la sua fede e il suo amore per Gesù, lo offre e lo condivide con il povero storpio. L’insegnamento è profondo. La misericordia è anzitutto condivisione che coinvolge la vita stessa della persona. Non in primo luogo una banconota, ma l’atto della condivisione di ciò che si ha di più importante. La misericordia punta diritto all’essenziale nella vita e a ciò che uno pensa di avere come più prezioso. Infine, Pietro tocca il mendicante: “lo prese per la mano destra e lo sollevò”. Quante volte abbiamo sentito papa Francesco parlare dell’esigenza di “toccare la carne di Cristo”. La misericordia è un prendere per la mano e sollevare. E’ quindi un impegno concreto che aiuta a rialzarsi dalla condizione di povertà per recuperare la dignità perduta. Passare accanto a una persona, accorgersi della sua necessità, iniziare un colloquio, guardarla negli occhi, toccarla, condividere, e aiutare a rialzarsi… ecco tutti i tratti che permettono di mettere in pratica la misericordia. La misericordia, dunque, è la vita quotidiana di ogni credente che desidera essere discepolo del Signore. Una vita che si esprime con l’attenzione, la vicinanza, la solidarietà, la condivisione, la consolazione e il perdono. Ecco perché questo è il tempo della misericordia.

Per concludere

Il Giubileo ha un carattere straordinario, ma ritengo che abbia inciso in maniera molto forte sulla vita della Chiesa. Lo sguardo, dopo il 20 novembre dovrà essere capace di guardare ancora alla misericordia come il luogo privilegiato dove poter fare esperienza della fede che si ravviva, della speranza che si rafforza, e della carità che non si stanca. Certamente, dopo un Anno Santo così intenso, vissuto nell’esperienza diretta di tutte le Chiese nel mondo, la sfida diventa grande. Essa consiste nel verificare come continuare ad essere testimoni di misericordia e come fare della misericordia il cuore dell’azione pastorale. Con ragione Papa Francesco insiste perché la misericordia sia considerata come “l’architrave che sorregge la vita della Chiesa” e la sua intera “azione pastorale”. Per riprendere le sue parole che sono un vero spiraglio aperto per l’impego della pastorale dopo il Giubileo: “Nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole. La Chiesa «vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia»… È giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono. È il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli. Il perdono è una forza che risuscita a vita nuova e infonde il coraggio per guardare al futuro con speranza” [11].

Alla Chiesa è stato affidato il “ministero della riconciliazione” (2 Cor 5,18). E? attraverso questo annuncio fattivo che il mondo può credere all’amore di Dio, che ha donato se stesso per la salvezza dell’uomo. Non potrà mai mancare, pertanto, la “parola di riconciliazione” (2 Cor 5,19) con la quale la Chiesa è impegnata a far rispendere nel mondo la luce della misericordia offerta con la presenza di Cristo Redentore. Il tempo della misericordia, dunque, non si conclude con la fine del Giubileo, ma si staglia dinanzi a noi come impegno per il futuro della Chiesa nel mondo. Una responsabilità che non può essere demandata ad altri, perché impegna in prima persona ogni cristiano. Il cuore di ognuno, pertanto, si deve riempire di gioia per il grande dono che ci è stato fatto di portare a tutti il Vangelo della misericordia.

 

 Rino Fisichella

 

 

 

[1] 11 aprile 2015.

 

 

[2] Efrem, Commenti sul Diatesseron 1,18-19.

 

 

[3] XXVI Domenica del Tempo Ordinario. Questa colletta appare già, nell’VIII secolo, tra i testi eucologici del Sacramentario Gelasiano (1198).

 

 

[4] III Domenica di Quaresima.

 

 

[5] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, n. 13.

 

 

[6] Papa Francesco, Misericordiae vultus, n. 25.

 

 

[7] MV n. 12.

 

 

[8] Francesco, Udienza Giubilare del 30 giugno 2016.

 

 

[9] Francesco, Sacerdoti misericordiosi come il Padre, Scv 2016, 70.

 

 

[10] Non si dimentichi che questo capitolo 25 di Matteo è l’ultimo discorso che Gesù compie. La parabola raccontata sul giudizio finale può essere interpretata facilmente come l’ultimo insegnamento lasciato da Gesù ai discepoli nella teologia di Matteo; cfr. J. Gnilka, Il Vangelo di Matteo II, 533-554.

 

 

[11] MV 10.